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Canto VI (Note di politica)

Capitalismo, il legame con le religioni

29 Novembre 2019

IL capitalismo ha i secoli contati ma la trasformazione del mondo è più profonda del pozzo in cui la cultura tenta di decifrare la crisi del nostro tempo. Si parla troppo di tecnica e poco degli uomini eppure è sempre esistito un legame fortissimo tra economia e le religioni, tra il mercato e lo spirito. Prendete alcune parole: debito, credito, credere, fede, mercato, ebbene hanno tutte a che fare con la teologia e le riflessioni sull’economia nascono nel mondo sacro: possiamo risalire addirittura ai Sumeri con Gilgamesh, il primo grande poema. Fior di filosofi nel Novecento hanno paragonato il capitalismo a una religione visto che il capitalismo andava a dare risposte all’ansia e all’inquietudine. La vedevano su lati opposti Marx e Max Weber perché il primo riconduceva la teoria economica sulla base dei rapporti di produzione e il secondo la inseriva nella trasformazione culturale del tempo. Detto questo, la domanda è semplice: “Quale spirito può animare oggi l’economia, visto che le grandi scuole presentano il capitalismo solo come tecnica e alla fine hanno fondato una nuova ideologia”? Si sa, ce lo hanno insegnato i grandi Maestri, il capitalismo ha successo perché si mangia e assorbe i propri nemici; (un film davvero riuscito di Alessandro Aronadio, “Io c’è”, ci racconta il rapporto tra religione ed economia ai tempi della crisi economica). Noi siamo abituati a pensare all’economia come a una macchina fatta di profitti e tecnica e dimentichiamo che un’organizzazione economica non è altro che l’evoluzione spirituale di una civiltà. Per questo avrebbe bisogno di dare un senso alle cose. Negli anni Sessanta e Settanta – è la tesi dello psicanalista Lacan – c’è stata la trasformazione del capitalismo con la riduzione della matrice cristiana a vantaggio dello spirito edonista. In sostanza il capitalismo ha capito che doveva usare il desiderio della collettività di poter disporre di beni di consumo a piacimento. E da qui si arriva al paradosso che stiamo vivendo: in Italia il numero delle persone che non lavorano, (disoccupati, inoccupati, pensionati), supera largamente quello di coloro che lavorano ma questo non impedisce a una buona parte della popolazione di consumare in modo sfrenato, distruggendo, dove è possibile, la ricchezza accumulata dai padri. È una nuova organizzazione sociale con cui dovremo fare i conti presto e per questo gli economisti dovrebbero avere una formazione più umanistica e meno tecnica.

Manca la democrazia culturale

24 Novembre 2019

 

Dove sono gli intellettuali in Italia? Li cerchiamo invano da vent’anni ed è chiaro a tutti che il clima culturale è dominato dall’elogio dell’incompetenza e soprattutto dall’assenza di un’industria culturale. Non scandalizzatevi se uso la parola industria: se lo avessi fatto negli anni Settanta avreste associato il termine industria al lato commerciale come se non si potesse avere successo vendendo i libri o i dischi.  Le cose non stanno così. Proprio negli anni Settanta, l’industria culturale consentiva agli intellettuali di arrivare al pubblico attraverso la prima pagina del Corriere della Sera, la Rai trasmetteva Eduardo De Filippo in prima serata e le case discografiche agevolano l’avvento dei cantautori. La verità è che gli artisti possono esprimere se stessi solo all’interno di un sistema che valorizzi il talento e lo incanali nel modo giusto in modo da incontrare il pubblico. In caso contrario gli artisti e gli intellettuali restano acquattati ad aspettare che accada qualcosa. Se non ci fosse stato un pubblico non avremmo avuto la democrazia diffusa a livello culturale: non avremmo avuto Pasolini, De André e nemmeno Monicelli nel cinema, tutti artisti che sono stati in grado di coniugare il successo personale con il mercato. Le responsabilità sono molteplici e coincidono con la distruzione della scuola. Luca Ricolfi, sociologo dell’Università di Torino sostiene, dati alla mano, che la preparazione di un diplomato di oggi corrisponde a quella dei ragazzi che ottenevano la licenza media negli anni Cinquanta e che gli errori di ortografia rilevati nelle tesi di laurea in discussione in questo tempo sarebbero stati evitati da chi conseguiva la licenza elementare nel Sessanta. La realtà è che da troppo tempo si è investito nella cultura solo a fini clientelari e la scuola è andata in malora. Così si salvano coloro che hanno incontrato sulla propria strada un insegnante in grado di accendere la passione culturale mentre chi ha avuto un docente stanco e demotivato si è perso. Insegnare significa lasciare un segno ma come si fa se l’Università è gestita in funzione delle carriere dei professori i quali amano definirsi parte di una comunità scientifica ma in realtà sono spesso volgari corporazioni?   Sulle cause del declino dell’industria culturale si potrebbe andare avanti: gli editori veri, ad esempio, sono spariti, uccisi non da Internet - come si dice - ma dagli interessi che avevano in altre branche dell’economia: edilizia, sanità, finanza su tutto. Un castello quello della cultura che ha iniziato a scricchiolare con l’avvento del berlusconismo e con la conseguente messa in liquidazione di una parte importante della nostra tradizione repubblicana. Ora non mancano gli intellettuali, gli artisti, i musicisti, i registi di valore. Ci sono ma nessuno li vuole ascoltare.

Non donne di province, ma bordello!

28 Maggio 2019

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello

Nave sanza nocchiere in gran tempesta

Non donna di provincie, ma bordello!

 

È l’invettiva di Dante sull’Italia dilaniata dalle guerre interne per il potere e per i futuri assetti: la disputa riguarda la fazione filopapale e quella filoimperiale. Le battaglie si susseguono tra Guelfi e Ghibellini e il risultato è che l’Italia è serva dei tiranni ed è in balìa di quattro signorotti locali che approfittano del caos per impadronirsi del potere; in tutte le città ogni villano che diventa un capo fazione è ormai un eroe. Da qui lotte intestine, corruzione e decadenza. È una nave senza il nocchiere che possa farla uscire dalla tempesta; non è più il Paese delle province, e quindi dei popoli, ma è una puttana. L’invettiva non risparmia nessuno e chiama in causa imperatore, gente di chiesa, comuni, fazioni, famiglie patrizie: tutti responsabili, nessuno che si possa credere assolto visto che ha mostrato il disinteresse per la pace comune. Assoluzione e delitto lo stesso movente. Dante ha riservato i canti sesti della sua Commedia alla Politica e qui siamo nel Purgatorio. All’invettiva segue un’invocazione divina, una smisurata preghiera, che si conclude con un invito: “Corri a vedere quanto odio c’è nel popolo! E se per noi non provi nessuna compassione, corri almeno a vergognarti della tua reputazione. E se mi è concesso, o Cristo, rivolgermi a te, dov’è finito il tuo senso di giustizia”? Ogni riferimento all’Italia di oggi è casuale?

Il problema irrisolto della libertà

8 Luglio 2019

Quando si vuole interpretare in modo storico e concreto la massima di D’Azeglio: “L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”, dobbiamo tradurre quella frase così: “Fatta l’unità geografica, si ha da fare l’unità morale, cioè la libertà”. Ogni altra interpretazione è antistorica. Appare evidente, dalla storia e dalla pratica sociale di oggi che il problema della libertà non sia ancora stato risolto. Ho ripreso in mano un libro del 2006, Gli Anarchici, scritto da Aldo De Jaco e pubblicato dagli Editori Riuniti; un testo molto ben documentato sulla nostra storia che ricostruisce gli avvenimenti del secolo scorso e che ci fa capire come siamo conciati oggi. La generazione che si pose “oggettivamente” il problema della libertà fu quella dei Cafiero, dei Costa, dei Malatesta i quali volevano “fare gli italiani” ma il pensiero anarchico è andato avanti, spesso di pari passo col misticismo. Avremmo bisogno di aprire un dibattito su questi temi e non dei soliti talk show con la compagnia di giro di Mediaset e Rai.

5 Stelle, un suicidio per induzione

27 Maggio 2019

Quando i lupi si fanno amici degli agnelli, la situazione diventa pericolosa. E così il lupo Salvini mette le mani sul Paese e adesso ha il pallino in mano. Il voto del 4 marzo dell’anno scorso aveva premiato il Movimento 5 stelle perché gli elettori avevano voluto scongiurare quella che allora sembrava l’ipotesi più probabile: la coalizione tra Pd e Forza Italia. Dopodiché era evidente che qualunque maggioranza fosse impossibile. Il governo con la Lega è un classico caso di suicidio per induzione. Pronosticammo in molti, già nell’aprile del 2018, che a suicidarsi sarebbero stati i 5Stelle perché avrebbero perso buona parte di quell’elettorato guadagnato a sinistra con il loro porsi come un soggetto esterno alle categorie politiche esistenti, alla destra come alla sinistra. La questione immigrazione poi ha avuto un peso importante in senso deleterio; il politologo Piero Ignazi, al momento dell’alleanza col ministro dei selfie, aveva ricordato che nel programma dei 5Stelle era previsto il divieto di respingere i migranti in Paesi che non rispettino i diritti umani; e in precedenza, il Movimento si era adoperato per l’abolizione del reato di clandestinità. Se all’elettorato di Salvini poca interessa il caso Siri, messo al governo dopo una sentenza per bancarotta – che vuoi che sia -  all’elettorato dei 5Stelle non va giù che i porti si possano chiudere in barba a tutte le leggi sul mare con un post. E forse non accetta nemmeno che il parlamento decida di non far processare Salvini sul caso Diciotti riproponendo imbarazzanti confronti con chi, in quella stessa aula, decise che Ruby rubacuori fosse la nipote di Mubarak.