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Danilo Rossi: "Dietro al talento c'è tanto lavoro"

Danilo Rossi: "Dietro al talento c'è tanto lavoro" - Alfredo Franchini

di Alfredo Franchini

 

Anche  la primissima Viola della Scala si incazza per la cultura dimenticata in Italia. E sotto il tiro di Danilo Rossi, violinista e violista di fama internazionale, finiscono la politica e i mass media. La goccia che ha colmato il vaso della sopportazione è stata la vittoria ignorata da tutti di un ragazzo di vent’anni, Giuseppe Gibboni, in un concorso violinistico internazionale che l’Italia non vinceva da ventiquattro anni. Una notizia passata sotto silenzio. Così Rossi ha preso carta e penna e ha scritto una lettera indirizzata al presidente della Repubblica per denunciare una situazione grottesca: l’estata trascorsa ha portato medaglie e coppe nello sport e i vincitori sono stati portati sugli allori e ricevuti a Palazzo Chigi e al Quirinale. Al contrario, i successi di due italiani nel concorso pianistico Chopin di Varsavia e la vittoria di Gibboni al Paganini di Genova sono stati ignorati. Extra Music Magazine ha parlato con Danilo Rossi della questione culturale in Italia.

Iniziamo dalla domanda più banale: perché ha scritto quella lettera a Mattarella?

“Non voglio abbassare il livello della discussione mettendo in discussione lo sport che, tra l’altro, amo e seguo con entusiasmo. E non sto nemmeno tra coloro che accusano i calciatori di essere pagati troppo. Volevo solo dire che che certi onori in questo Paese devono essere riconosciuti a chi ha un valore internazionale, a chi si impegna. So cosa vuol dire vincere un concorso internazionale, quanto studio c’è dietro”.

Anche perché lei vinse il suo primo concorso violinistico a sedici anni.

“È vero e poi a vent’anni ero alla Scala dove – ci tengo a dirlo – si entra solo con un concorso. Insomma, voglio dire che non si possono ignorare i talenti che abbiamo in casa”.

Che cosa è successo dopo la vittoria di Gibboni? Mi risulta che l’Ansa abbia dato la notizia.

“È questo è ancora più grave. Significa che la notizia è passata ma i mezzi di informazione l’hanno ignorata. Solo tre giorni dopo è stata ripresa in breve da un quotidiano e sono trascorsi altri nove giorni, (e soprattutto la denuncia di Danilo Rossi, N.d.R.), perché fosse trasmessa nel Tg1 delle 20. Non sarebbe male se adesso gli organi di informazione prendessero atto di aver preso una bella cantonata. È chiaro che la stampa ritiene che la notizia del violinista eccellente non faccia audience e non capisce che se avessero il coraggio di parlarne ogni giorno avvicinerebbero una persona in più”.

Lei spara su politica e sui giornali ma non pensa che anche la società sia accondiscendente? Sulle grandi questioni noto un silenzio degli intellettuali. Come nel Falstaff, per restare in tema di musica, tutto declina.

“Direi di no. La cultura non è trascurata se la mia lettera ha avuto un boom sulla rete. La gente ha detto basta, chi scrive ha ragione. Mi sarebbe piaciuto se quelle persone avessero mandato una lettera ai giornali, come si faceva una volta, ma i tempi sono cambiati, oggi si condivide sui social, e il dibattito è diventato virale con oltre centomila visualizzazioni”.

Un allarme sulla questione culturale in Italia è stato lanciato negli ultimi mesi da due musicisti: uno è lei e, in precedenza, lo aveva fatto Riccardo Muti con un’intervista al Corriere della Sera. Chi sono i musicisti oggi?

“Nell’immaginario collettivo noi siamo privilegiati e lo siamo come tutti coloro che fanno un lavoro che amano. Ma siamo anche persone che per raggiungere certi livelli si fanno un mazzo per tutta la vita. Questo non è riconosciuto ma i sacrifici devono essere valorizzati e lo dico per tutte le professioni”.

Da qui la rabbia che traspare nella sua lettera?

“Sono un romagnolo verace, dico quello che penso. L’Italia impegna lo 0,27 del Pil per la cultura contro il due per cento del Pil della Francia che investe dieci volte rispetto a noi. Se si duplicassero le risorse nel nostro Paese verrebbero riaperti i teatri e ci sarebbero più orchestre e più occasioni per i giovani”.

È nota la scarsa alfabetizzazione musicale, tra l’altro in Italia si vendono molto meno strumenti rispetto agli altri Paesi.

“Sì, dimenticando che siamo quelli che hanno inventato la musica, che nel Settecento hanno insegnato a tutto il mondo il melodramma. Per questo ogni tanto c’è un musicista come me che si incazza”.

Lei insegna al Conservatorio e quindi ha il polso della situazione dei giovani.

“Ce ne sono tanti bravi e lasciatemi dire che non è facile essere giovani oggi proprio perché non sono valorizzati. Prendiamo anche le polemiche sui Maneskin: si dovrebbe solo essere contenti che quattro ragazzi italiani vadano in America. Erano anni che questo non accadeva. I Maneskin sbancano e vanno ad aprire il concerto dei Rolling Stones. Sono grandi risultati, tutto fa parlare della cultura in Italia, io mi entusiasmo”.

I suoi studi classici, il fatto di essere la prima Viola della Scala, non le hanno impedito di avvicinarsi ad altri generi come ad esempio al jazz. Qual è la sua idea di musica?

“Sono solo molto curioso e non finisco mai di cercare cose diverse da quelle che faccio ogni giorno. Ho avuto la fortuna di incontrare musicisti straordinari che mi hanno coinvolto dal pop al jazz. Non sono un compositore ma un esecutore, però credo che sia chiaro a tutti che non esistono più gli steccati, che è bene non tirare su nuovi muri, sia quelli veri e sia quelli culturali. Le dico una cosa: io vengo dal liscio, a quattordici anni passavo l’estate nelle balere della Romagna a suonare con le orchestre da ballo. Non me ne vergogno, è stata una grande palestra”.

Che cosa risponde a chi disse che con la cultura non si mangia?

“Che dovrebbe vergognarsi. Ritorno a parlare della Francia. Ci sono i musicisti fortunati, quelli come me, che lavorano tutti i giorni e ci sono quelli che non hanno la stessa possibilità. Bene, lo Stato francese garantisce una continuità salariale a quanti non hanno la possibilità di lavorare quotidianamente. Durante il lockdown in molti hanno scoperto che la musica è cibo per l’anima, ma si sono dimenticati di quei musicisti per i quali la musica è cibo, cioè è la possibilità di pagare le bollette”.


Nicola Piovani ha detto che la musica è pericolosa, nel senso che ha un potere trascendentale. Per lei cos’è?

“La musica è cultura, fantasia, potere di aggregazione. Ma dietro al talento dei musicisti c’è tanto lavoro e mi incazzo se non viene riconosciuto”.

 Articolo pubblicato su Extra Music Magazine, 3 novembre 2021

Leonard Cohen, un viaggio, una canzone

Leonard Cohen, un viaggio, una canzone - Alfredo Franchini

di Alfredo Franchini

 

 La domanda è essenziale: si può fare un film su una sola canzone? La risposta è sì, se la canzone è Hallelujah di Leonard Cohen, il romanziere e poeta diventato cantautore, l’ebreo diventato monaco zen, l’uomo che ha vissuto tante vite insieme.  Il film è stato presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e Extra Music Magazine prosegue con Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song le recensioni dei docufilm sulle star della musica, in arrivo nelle sale cinematografiche di tutta Italia. Dunque, un film su una canzone e Dayna Goldfine, una dei due registi, risponde alla nostra domanda iniziale: “Non avremmo mai osato fare un film su nessun’altra canzone ma in questo brano Cohen mette insieme la filosofia e la dimensione spirituale. Ci abbiamo lavorato per sei anni, non credo che avrei trascorso tanto tempo su un’altra canzone anche perché nessun altro artista avrebbe potuto scrivere un brano del genere”.

Hallelujah faceva parte di un album, Various Positions, che quando uscì nel 1985, suscitò molti dubbi, critiche e polemiche tanto che la casa discografica, la Columbia, (oggi Sony), decise di non pubblicarlo negli Stati Uniti. Il produttore disse: “Leonard, sei grande ma non capiamo quello che stai dicendo, questo disco non avrà mai successo”. Poi, come è capitato tante volte nella storia della musica pop, l’album e in particolare la canzone Hallelujah diventata un inno di fama internazionale, avrebbero avuto una risonanza che la casa editrice non aveva immaginato. Il film statunitense, attraverso quel brano e la sua storia controversa, ricostruisce, con interviste e materiali inediti, il ritratto di un poeta, un ebreo errante che va dal Canada a un’isola della Grecia, Hydra, negli anni del libero amore, dell’espansione delle droghe, anni Sessanta quando tutto sembrava possibile. In quell’isola greca Leonard vivrà la lunga storia d’amore con la sua musa norvegese, Marianne Ihlen, e furono tradimenti, litigi e fughe senza che smettessero di amarsi per mezzo secolo. (La storia è anche narrata in un altro film, Marianne e Leonard, words of love, recensito da Extra Music Magazine nel 2020).  Negli anni Cohen passerà poi dal Chelsea Hotel di New York dove soggiornava con Janis Joplin e Jimi Hendrix a un monastero zen, a due ora di auto da Los Angeles, adagiato su un cocuzzolo a 1500 metri sul mare. Starà in quel ritiro per sei anni, dal 1993 al 1999, giornate scandite da una ferrea disciplina a meditare e a cucinare per il suo maestro. Sono stati anni durante i quali  ritrovò la pace dello spirito e imparò a bere di tutto, cognac, whisky, vino mentre il suo maestro Seasaki Roshi preferiva il sakè. In quel monastero arrivò spinto dalla depressione ma non cercava risposte né una religione: “Sono nato ebreo, non ho mai nuotato in altri oceani. Morirò ebreo”.

Hallelujah è formata da sette versi di cui tre definiti supplementari dall’autore; è un brano che Leonard pensa e ripensa nell’arco di molti anni e ci sono molteplici versioni dal vivo. Il testo originale contiene molti riferimenti biblici ma il brano accanto ai  temi più spirituali mette quelli eterni dell’amore che se ne va. Il primo artista che la canta dal vivo in un tour del 1985 è Bob Dylan, poi Hallelujah entrerà nel repertorio di decine e decine di interpreti. Dal film apprendiamo che i due poeti si incontrano a Parigi e che Leonard con la sua consueta dolcezza, messa da parte l’usuale tetraggine, sorride a Dylan e lo ringrazia per la cover. Il futuro premio Nobel si dice incantato da quelle sette strofe e chiede a Cohen in quanto tempo avesse scritto una canzone così. Il dialogo è fulminante: “Sette anni”, risponde il cantastorie canadese e Dylan riflette: “Pensa che per comporre I and I, (dall’album Infidels, Ndr), ci ho messo dieci minuti e l’ho scritta dentro a un taxi”.

Un viaggio, una canzone e Cohen ha dato a tutti il permesso di tradurre i versi in mille modi diversi. Un amico del grande canadese disse che Leonard aveva portato l’alleluia sulla terra e Cohen gli rispose: “Allora questa canzone dev’essere reinventata, farla vivere non lasciarla in sospeso”. La canzone è una scoperta progressiva ma anche una fatica per i due registi americani. Quando proposero il progetto Leonard non era del tutto convinto di accettare ma poi pose solo alcune condizioni – rivela Robert Kory, responsabile di Leonard Cohen Family Trust – una di queste era di non rilasciare interviste, una decisione peraltro presa prima del tour del 2008.  I registi del film furono comunque contenti dell’approvazione del docufilm e lavorarono sul materiale messo loro a disposizione dallo stesso Cohen: quaderni e interviste alle persone più vicine, le guide spirituali, gli amici, i collaboratori di vecchi data, gli avversari intellettuali. Gli intervistati testimoniano l’interesse di Cohen per la condizione umana e in questo modo ci rivelano alcuni aspetti delle questioni più profonde, la fede, la vita, l’amore. Per quanto possibile ci spiegano anche molto del processo creativo, della ricerca filosofica e l’etica dell’arte dell’autore di Suzanne. Nei versi di Hallelujah contano più le domande rispetto alle risposte che spesso non ci sono o come cantava il suo amico Dylan, “the answer, my friend, is blowin' in the wind”, soffiano nel vento.

È un re confuso che compone l’Alleluia: “Dici che ho nominato il nome invano; non lo so neppure il nome”. I riferimenti sacri si fondono con l’amore carnale: “La tua fede era forte ma avevi bisogno di una prova, la vedesti che faceva il bagno sul tetto, la sua bellezza e il chiaro di luna ti stroncarono… non importa quale abbia udito tu, se il sacro o lo sgangherato alleluia!” L’assistente al montaggio è italiano: Tommaso Semenzato: “Avevamo tanto materiale”, spiega, “centinaia di ore di interviste, pezzi di concerti, scritti; il mio ruolo è stato quello di dare un senso all’archivio”. Tutto con uno scopo preciso: far emergere l’autenticità del poeta e il rispetto che aveva per il pubblico; l’uomo che racconta i perdenti della vita, l’amore smarrito ma che non è mai il cantore dei cuorinfranti. Con quella voce così bassa che scava nell’inconscio, Leonard ci racconta il male di vivere e la capacità di illuminare le nostre coscienze. Così rivediamo quel signore con l’abito scuro e il cappello in testa che ci saluta dal palco alla fine del concerto: «Grazie amici, vi abbiamo dato tutto ciò che avevamo”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 2 ottobre 2021

Nella foto in alto la conferenza stampa a Venezia. Da sinistra Tommaso Semenzato, Dayna Goldfine e Robert Kory

Morricone, la musica epica al cinema

Morricone, la musica epica al cinema - Alfredo Franchini

di Alfredo Franchini

 

 LA musica va al cinema e approda alla Mostra di Venezia con una serie di documentari sulle star, da Morricone ai Led Zeppelin, da Cohen a De André, da Ezio Bosso alla Vanoni. Visti in anteprima nelle sale del Lido, i docufilm musicali saranno nei cinema a partire dal prossimo ottobre. Se una macchina organizzativa come quella di Venezia ha messo questo genere di film al centro dell’attenzione cinematografica c’è un motivo: i documentari stanno appassionando sempre di più lo spettatore grazie a una narrazione del reale in stile cinematografico. E poi, in qualche modo, rappresentano una risposta alle tante fiction sui miti della musica che non sempre hanno convinto perché – diciamolo – è difficile scrivere una sceneggiatura esauriente sulla vita di personalità complesse. Giorgio Verdelli, il regista del docufilm su Ezio Bosso offre un’altra spiegazione: “Non ci sono più i grandi miti e si sente il bisogno di riviverli”.

Extra Music Magazine, dopo De André#De André, Storia di un impiegato, continua a raccontare i docufilm che vedremo in questo autunno, a cominciare da Ennio di Giuseppe Tornatore. Due ore e tre quarti volano troppo veloci alla scoperta di un autentico maestro: Ennio Morricone, autore della colonna sonora della nostra vita con memorabili composizioni per il cinema, (ne ha realizzate più di 500), di opere sacre ma anche di moltissime canzoni di successo, quando la musica andava a 45 giri. Suoi gli arrangiamenti di Sapore di sale, Abbronzatissima, Se telefonando e altri successi.

Alla presentazione al Lido, in prima fila, ci sono la moglie di Morricone, Maria, e i figli Flavia, Marco e Giovanni. Sullo schermo, durante la lunga intervista concessa al regista di Nuovo Cinema Paradiso, apparirà a tratti un Ennio anche emozionato nel ricordare l’austerità della sua gioventù.  Era un uomo semplice, Ennio - racconta uno dei produttori Gabriele Costa - e in genere si irrigidiva durante le interviste. I rappresentanti della vasta coproduzione, (Italia-Belgio-Cina-Giappone), andarono a proporre il progetto al maestro che inizialmente rimase impassibile. Poi Ennio, senza dir nulla, si alzò e sparì in un’altra parte dell’abitazione per uscirne qualche minuto dopo e accettare la proposta.  Cosa era successo? “In quei pochi minuti aveva telefonato a Tornatore dicendogli: “Peppuccio, do il via libera al film solo se lo fai tu”.

L’inizio del film è sorprendente: vediamo Morricone nella sua casa di Roma mentre fa ginnastica, poi i movimenti delle braccia si sovrappongono, solleva una mano come a muovere un’immaginaria bacchetta, la scena cambia ancora ed eccolo sul podio a dirigere la sua orchestra.  “Tutti sanno che Ennio dedicava le prime ore del mattino all’esercizio fisico”, spiega Giuseppe Tornatore, “ma io ho sempre pensato che in questa sua pratica non ci fosse solo il desiderio di tenere in forma il proprio corpo. No, era l’espressione rigorosa della sua vita. Esercizi continui per allenare se stesso, per affrontare con lo stesso rigore la sua unica ed eterna passione, la musica”. Le riprese della ginnastica furono fatte perché l’amico Peppuccio convinse Ennio facendogli leggere il soggetto. Il documentario si basa anche sulle testimonianze di artisti e registi, tra i quali Bertolucci, Montaldo, Bellocchio, Argento, i fratelli Taviani, Verdone, Barry Levinson, Roland Joffè, Oliver Stone, Quentin Tarantino, Bruce Springsteen, Nicola Piovani, Hans Zimmer e Pat Metheny. Il resto lo fa il montaggio di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci e il materiale inedito di cui si è servito il regista ma tutto ruota – vero filo conduttore – sulla musica. Come si fa a non perdersi nel racconto di una vita come quella di Morricone? Tornatore realizza una sorta di romanzo audiovisivo e, a differenza di molti documentari in cui nessun regista sceglierebbe di seguire una linea cronologica col serio pericolo di infilare la storia dentro a una gabbia, in questo caso domina la cronologia. Così il lavoro diventa un punto fermo per chi vuole conoscere meglio il maestro e anche per chi volesse proseguire gli studi delle sue opere.

A un certo punto del film sentirete Morricone fare un’affermazione degna di approfondimento: “Le note non sono più importanti conta quel che il compositore le fa diventare”. Ciò che diede la gloria a Morricone, vincitore di due Oscar, era per lui anche un cruccio. Scrivere per il cinema significava in qualche caso piegare il pentagramma al servizio delle immagini ma Ennio scelse di non rinunciare mai alla propria personalità. “Il regista non deve sapere”, disse, “se ho composto un pezzo su tre note o sette o se l’armonia si svolge su tre suoni. Il risultato finale è servire il film ma la musica deve avere dentro qualcosa che la riscatti a se stessa”. E allora possiamo capire meglio il suo modo di pensare il cinema, la scrittura epica, l’impressionismo dei suoni, il famoso fischio, i rumori che rendono indimenticabili le pellicole. Sono famose le colonne sonore dei western con quella che venne definita la trilogia del dollaro: nel 1964 esce “Per un pugno di dollari” e nel triennio successivo “Per qualche dollaro in più” e, forse il più importante, “Il buono, il brutto, il cattivo” che cambia gli orizzonti della musica italiana. Una rivoluzione: da una parte l’arricchimento della componente timbrica con segnali sonori non previsti dall’orchestrazione tradizionale, entrano nella partitura la frusta, la campana, l’incudine; dall’altra parte il contrappunto, un dialogo tra le diverse sezioni di strumenti. Ennio non voleva essere identificato per gli spaghetti western, eppure quel fischio che caratterizza “Per un pugno di dollari” finità addirittura primo nella classifica dei 45 giri più venduti, segnando un’epoca con grande stupore persino della RCA italiana che allora era la più importante filiale europea dell’azienda americana. E di quella casa discografica, costruita dagli americani nel dopo guerra in un posto improbabile sulla Tiburtina per dare un contributo alla rinascita di Roma, Ennio sarebbe diventato una garanzia di successo. Come arrangiatore, tra l’altro, contribuì alla nascita della “trilogia del te” quando Gianni Morandi cantava Non son degno di te, Se non avessi più te e In ginocchio da te, brani che diedero vita a un altro genere di film non proprio memorabili, chiamati “musicarelli”. Questo per dire – come spiega Tornatore - che nessuno riuscirà mai a compilare l’opera omnia di Ennio: “Si sono persi troppi lavori e soprattutto quelli dell’inizio. Sono sparite tante composizioni destinate a trasmissioni radiofoniche degli anni Cinquanta e Sessanta perché lui consegnava gli originali e non teneva alcuna copia. Tra l’altro non si trova più nemmeno lo scritto elaborato per l’esame di composizione, e questo perché i Conservatori buttano via tutto ogni dieci anni”.

È un film delle scoperte. Dalle piccole scene di vita quotidiana, ad esempio la passione per gli scacchi, alla devozione che per Ennio avevano tanti gruppi rock e l’affetto di Bruce Springsteen, il quale gli dedicò diversi concerti in Italia. Il boss ricorda: “Quando vidi il Buono, il brutto, il cattivo ebbi come un’illuminazione e appena uscii dal cinema corsi a comprare la colonna sonora”. Il verso del coyote, il fischio, un marchio di fabbrica dell’impressionismo musicale di Morricone.

Una vita per niente facile. Ennio era nato povero e il padre, suonatore di banda, portava il bambino con sé mostrandogli la fatica di guadagnarsi da vivere con la musica. Ennio studia la tromba al Conservatorio e poi composizione; come tutti i grandi è curioso, vuole sperimentare e innovare perché la tradizione dev’essere studiata a fondo per poterla trasformare. Diverse intuizioni musicali giungono dalla vita quotidiana. A Roma assiste a una manifestazione sindacale e ascolta gli operai percuotere i fusti di metallo: è da lì che nasce il tema musicale di “Sostiene Pereira”.

Tornatore ha ragione: nonostante la meticolosità nel reperire i materiali e la capacità di mettere ordine alla cronologia, da Mission alla ballata di Sacco e Vanzetti, a Uccellini e uccellacci di Pasolini, (con l’unico esempio dei titoli del film non scritti ma cantati, in quel caso da Domenico Modugno), una vita come quella di Morricone lascia aperta la porta a nuovi approfondimenti. “Sapete qual è il problema”? conclude Tornatore, “lui non è mai stato convinto dalla sua grandezza. Serio e rigoroso in tutto quel che scriveva, non nascondeva mai le proprie emozioni. E negli ultimi anni, il rivangare delle stagioni, hanno rappresentato momenti di grande sofferenza. In realtà non perché ci siano stati grandi eventi negativi ma proprio per quel suo modo di rapportarsi alla musica, una musica profonda che poteva essere non compresa a fondo”. E allora si capisce la commozione di Ennio nel ricordare con l’amico Peppuccio la strada percorsa dal Conservatorio per raggiungere la casa del suo maestro di composizione. La memoria corre alle prime composizioni: erano tutte scene di caccia. Piccoli quadri musicali dove dominavano gli squilli dei Corni. Chissà forse è da lì che è venuta l’ispirazione per gli spaghetti western, i film di Sergio Leone a tre dimensioni: quello che si vede, ciò che si ascolta e la musica che da sola ci svela il significato di tutto.

Pubblicato su Extra Music Mgazine, 23 settembre 2021

Il docu De André alla Mostra del Cinema di Venezia

Il docu De André alla Mostra del Cinema di Venezia - Alfredo Franchini

 di Alfredo Franchini

Quanto tempo serve per percorrere il tappeto rosso alla Mostra del cinema di Venezia? Pochi minuti per i fotografi e un’eternità per Cristiano De André che, seguendo il percorso verso la Sala Darsena, mette ordine ai ricordi della sua vita. Il film “De André#De André” arriva al cinema dopo il tour sull’opera rock Storia di un impiegato; è il culmine di una carriera che, nonostante il cognome inesorabile e un diploma in violino al Paganini di Genova, s’è iniziata con le feste di piazze, una gavetta che ti fa crescere, altro che gli odierni talent. Cristiano ripensa a quei giorni, accade nel momento del trionfo con un film che dal 25 al 27 ottobre sarà proiettato in 320 sale cinematografiche. Ha inciso dischi importanti come Scaramante o Come in cielo così in guerra, un suo pezzo è stato ripreso e cofirmato da David Byrne, ma ora affiorano i ricordi di quelle feste in piazza, delle sue prime canzoni importanti eseguite sullo stesso palco dove Mietta raccoglieva gli applausi per il “trottolino amoroso”.  Dunque, De André hashtag De André, un simbolo dei nostri tempi che aggrega tematiche e persone. La sceneggiatura si può leggere come una serie di metafore in grado di traghettarci dalle istanze sociali degli anni Settanta a una rivoluzione personale; accade miracolosamente quando la sfera privata si unisce a quella sociale e la poesia si sposa alla politica. Cristiano presenta il docufilm a Venezia assieme a Dori Ghezzi e a Roberta Lena che aveva curato la regia del tour nei teatri e all’Arena di Verona, tramutando il concerto in uno spettacolo “multimediale” perché dietro la grande band di Cristiano scorrevano le immagini delle manifestazioni degli anni di piombo. Allora si scendeva in piazza per rivendicare un nuovo diritto di famiglia, per l’aborto, l’abolizione dei manicomi, per il sogno di un mondo senza disuguaglianze e intanto si alzava il fuoco del terrorismo e l’Italia conosceva lo strazio delle stragi di Stato. Sembrava che tutto dovesse cambiare ma forse il frutto più vistoso è stata la secolarizzazione dei costumi.

Tutto questo è documentato nel film di Roberta Lena, la regista torinese autrice del bel libro “Dove sei? la storia autobiografica di una madre la cui figlia decide, da un giorno all’altro, di partire per la Siria e andare a combattere l’Isis. Ma non è tutto. Con grande sensibilità artistica, Roberta Lena innesta sulle canzoni di Storia di un impiegato le vicende umane di Cristiano, il suo rapporto con un padre-mito, il desiderio di un’infanzia risolto con un bicchiere tra le mani.

A parte le immagini delle canzoni, un potente mix di elettronica e strumentistica acustica tratte dalle registrazioni fatte nel Teatro degli Arcimboldi di Milano, la scena del film diventa Portobello di Gallura, un luogo importante per Fabrizio ma di cui, a torto, si parla poco. È la casa che nel 1968 Faber cominciò a costruire con la moglie Enrichetta detta Puny. L’abitazione era arroccata più in alto di tutte le altre e Faber la battezzò il Nido dell’aquila. La dimora precedette, dunque, la scelta dell’Agnata e in quel Nido si ritrovarono molti miti del cinema italiano: Tognazzi, Marco Ferreri, Elio Petri, Walter Chiari e Paolo Villaggio. Tanti cervelli insieme che si nutrivano di uno spirito anarchico. È lì che una notte d’estate Ferreri ebbe l’idea della Grande abbuffata: “Tognazzi era un grande cuoco”, racconta Cristiano, “e dopo aver preparato una cena sontuosa portò in tavola una bellissima torta. Peccato che la forma fosse quella di due tette perfette” … La fotografia rende merito a un bagnasciuga del Nord Sardegna dalla cui acque limpide Fabrizio scorse un giorno una vacca che torceva il collo con un dentice in bocca. Nella casa abitata oggi da Cristiano è rimasto una sorta di soppalco, un piccolo proscenio su cui Ferreri, Tognazzi e tutta la combriccola si impose un limite di un quarto d’ora a testa per provare qualche gag. E così Villaggio, tra un belin e l’altro, inventò la scena delle polpette ingurgitate di fronte al severo dietologo tedesco: “Tu mangia! Infermieri venite”! Ugo Tognazzi fece le prove della Supercazzola, termine ormai riconosciuto anche dalla Treccani. Fu a Portobello che per la prima volta venne Francesco De Gregori per tradurre una canzone del futuro premio Nobel Bob Dylan con Cristiano, bambino, che gli chiese: “Perché Alice guarda i gatti”?

Storia di un impiegato fu scritta in parte in quell’angolo di paradiso e in parte a Genova in Corso Italia dove Fabrizio viveva con Puny e con Cristiano. In un’altra notte che volgeva all’alba, Faber svegliò Puny: “Vieni di là, ho scritto una canzone, voglio fartela sentire”. Era “Verranno a chiederti del nostro amore”. Cristiano - allora aveva dieci anni - sbircia i genitori dallo spioncino della porta del salotto: il padre canta e arpeggia sulla chitarra, la mamma ha due lacrime che scivolano sulle guance; nella dinamica del disco è l’estremo addio alla persona amata. Fabrizio scrisse quei versi mentre stava attraversando una grave crisi personale, innamorato di una ragazza di nome Roberta a cui avrebbe poi dedicato Giugno ’73 che si conclude con la fatidica frase: “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. Storia di un impiegato, pubblicato nel 1973, venne criticato da destra e da sinistra; era un lavoro profondamente anarchico e voleva dimostrare che non ci sono poteri buoni. “Sarebbe stato capito anno dopo anno”, assicura Dori Ghezzi. Si racconta di un impiegato di trent’anni che avverte l’urgenza di potere per staccarsi da una vita anonima e si trasforma in un bombarolo ma così facendo fa solo il gioco del potere. Anzi la bomba è eterodiretta e gradita dal giudice che lo ringrazia per aver eliminato i “soci vitalizi del potere” che non servono più a vantaggio di altri fedelissimi. Gli arrangiamenti di Cristiano De André e Stefano Melone sono stati calibrati proprio sulle tappe psicologiche del protagonista della storia. “Abbiamo cercato un suono che fosse un prolungamento di quello scelto all’epoca da Nicola Piovani”, spiega Cristiano, “l’idea era di riportare la tensione di allora a quella di adesso anche grazie a nuove sonorità. Abbiamo giocato col rock, con la musica popolare, con l’elettronica unendo tutti i brani con delle suite strumentali. Mio padre ha scritto senza seguire mai le mode e così le sue opere sono e saranno sempre attuali”. Ed è su questo che Roberta Lena ha puntato: “In Storia di un impiegato ci sono parole che, attraverso la poesia, ci riportano a un conflitto sociale, al bisogno della società di rigenerarsi con istanze dal basso. Quel disco è un sunto di quanto siamo costretti a vedere oggi ma una rivoluzione sociale non può esistere senza una rivoluzione personale. Su questo ho costruito la narrazione”. Dori Ghezzi ricorda una frase scritta in un appunto da Fabrizio: “A un tratto l’amore scoppiò dappertutto”, adoperato quasi come slogan dalla Fondazione. “Quelle parole sono il suo testamento”, dice Dori Ghezzi, “sin quando la gente non imparerà a dialogare, a capirsi, a riconoscersi, i problemi saranno sempre gli stessi. Questo film è a tratti anche duro ma mi auguro che dia a tutti un po’ di speranza”. Il pubblico applaude, Cristiano si stringe ai figli Alice e Filippo. Poi saluta gli spettatori con un set di canzoni: Fiume Sand Creek, Don Raffaè, Creuza de ma, Disamistade, La canzone del maggio, in duo con il chitarrista Osvaldo Di Dio. Due chitarre che riescono a farti sentire anche gli strumenti che non ci sono. Un piccolo concerto per far risuonare le parole di Fabrizio, dalla parte delle minoranze oppresse, dei servi disobbedienti alle leggi del brano, di chi cammina in direzione ostinata e contraria per consegnare alla morte una goccia di splendore. Negli ultimi anni Fabrizio si era un po’ incupito. “Mi disse: ho scritto contro la guerra e per chi non ha voce”, ricorda Cristiano”, ma non è servito, non è cambiato niente. Sono deluso. Ecco, oggi se solo potessi gli direi che ha sbagliato: noi siamo qui a parlare di lui e tanti ragazzini si avvicinano alle sue opere”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 16 settembre 2021

Cesare Picco, la filosofia della musica

Cesare Picco, la filosofia della musica - Alfredo Franchini

Quelli di Cesare Picco non sono concerti ma gesti di libertà. Un pianista che naviga tra classica, jazz e avanguardia potrebbe cercare l’applauso facile con un’esecuzione perfetta di un preludio di Chopin o, passando al mondo del jazz, con un pezzo di Bill Evans. No, Cesare Picco è un “improvvisatore” che, giorno dopo giorno, si misura con il pubblico e proprio durante il concerto fa nascere la sua musica. Ha studiato composizione e ha collaborato con grandi artisti sia del mondo classico, (tra gli altri Giovanni Sollima, Carlo Boccadoro), sia della musica pop, (Ligabue, Bocelli, Giorgia). Ha composto colonne sonore per il teatro e ha scritto le musiche di diversi balletti portati sul palco della Scala. Ma evidentemente non gli basta: prima ha sperimentato i concerti immersi nel buio totale e un mese fa, per il festival Piano City Milano, ha tenuto i concerti all’alba con le note del piano ad accompagnare il sorgere del sole. In questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine Cesare Picco spiega la filosofia della sua musica.

_ Pianista, compositore, clavicordista ma soprattutto improvvisatore che unisce tradizione e sperimentazione. Che cosa significa improvvisare? Un musicista deve pur sempre rispondere al pentagramma.

 “Da sempre chiunque senta parlare di improvvisazione pensa al jazz. Chiariamo che la musica è un linguaggio e come tale ha una sua grammatica e se tu vuoi parlare una lingua devi conoscere le regole. La forza del jazz è proprio l’improvvisazione che in questo caso si svolge dentro a uno schema, cioè le regole di quella lingua. Io ho studiato jazz e l’ho praticato per anni ma non sono un jazzista. Il discorso che faccio io è molto diverso: è il gesto ultimo della creazione in tempo reale di suoni di un linguaggio di una lingua mia. Io uso più grammatiche insieme. Mi interessa maggiormente la storia delle tante musiche del mondo e non solo quelle occidentali”.

_ Quindi il pianoforte è il tuo veicolo di espressione?

 “Mi piace far nascere la musica davanti al pubblico, in un determinato momento, con il mio piano, con quella data acustica. Il pianista dev’essere pronto a cogliere coi sensi tutto quello che si avverte durante il concerto. In quel modo crei un nuovo linguaggio”.

_ Quindi è questo il motivo per il quale hai creato i concerti al buio? Mi è capitato durante i concerti di stare sul palco dietro ai musicisti e mi ha sempre impressionato vedere da lì il pubblico in platea quindi dev’essere una sensazione strana suonare senza vedere niente.  Peraltro, la stessa meraviglia l’avranno manifestata i tuoi spettatori.

 “La mia avventura è iniziata quando mi sono detto: sei un improvvisatore e non devi fare il circo eseguendo il preludio di Chopin a tamburo battente. Intuivo che dovevo sparigliare le carte e togliendo il senso della vista avrei acquistato un senso più potente amplificando le sensazioni. Suonare al buio è come avere dentro un amplificatore analogico, valvolare, di quelli antichi che ti permette di avvertire i suoni che arrivano da lontano”.

_ È un momento importante per l’orecchio del musicista ma il pubblico come la prende?

 “La forza di questo esperimento è che il pubblico vive contemporaneamente quel momento e diventa così un’esperienza da fare insieme. Ti dico che dopo un quarto d’ora, avverto nitidamente di stare a suonare con mille persone tutti assieme, una vera botta di energia”.

_ Ci sono stati due diverse fasi: inizialmente hai tenuto i concerti per piano solo e poi coi musicisti sul palco, tutti al buio. Quali sono le differenze?

 “Anche questo è stato un bel percorso. Se non riesci a vedere gli altri musicisti scatta un altro livello di sensorialità. Come stare su una navicella spaziale in una nuova dimensione. Sono impegnato da più di dieci anni in una battaglia per la conoscenza del buio. Non solo come concetto fisico ma metafisico”.

 _ Fabrizio De André, quando andò a vivere in campagna rimase per sei mesi senza luce con un generatore di corrente che si esauriva all’imbrunire. Disse che quell’esperienza gli aveva fatto capire due cose: primo che tutti noi abbiamo dei bisogni indotti e poi che l’orecchio del musicista, nel silenzio della notte, poteva cogliere suoni particolari.

 “Condivido in pieno il giudizio. Non solo abbiamo bisogni indotti ma anche i nostri sensi sono influenzati dall’esterno. Siamo abitudinari e per riuscire a metterci alla prova dobbiamo mandare tutto all’aria”.

_ Sparigliare le carte con quale scopo?

 “Per me significa avere la capacità di giocare coi propri sensi per vedere il mondo in una maniera nuova”.

_ Dopo i concerti al buio il mese scorso hai proposto quelli all’alba. Cinquecento persone hanno invaso l’Ippodromo di San Siro alle 5 del mattino. Dal tramonto alla luce, che significa?

 “In questo momento, dopo il lockdown, le persone hanno bisogno di vivere qualcosa di molto forte anche sul piano sensoriale. Da musicista riconosco il potere del suono, parlo di suono, la musica è un’altra cosa. È la forma più potente di comunicazione tra esseri umani e creato; noi siamo vibrazioni e il potere di queste onde è fondamentale. Se cinquecento persone hanno deciso di alzarsi alle tre e mezzo per venire a sentirmi significa che scientemente avevano deciso di condividere un’esperienza in comune”. Al buio mi permetto di fare cose non facili perché voglio provare a scuotere l’ascolto con suoni alternativi. All’alba non faccio un pezzo dietro l’altro, avverto il bisogno di un suono che nasca dal profondo per accompagnare il sorgere del sole”.

_ La musica può creare una coscienza sociale?

 “Tutti i musicisti hanno un ruolo fondamentale, anzi direi tutti gli artisti che in questo momento possono e devono far la differenza. Non si può continuare a parlare tutti i giorni di economia e finanza: possiamo anche riuscire a pagare i debiti ma se abbiamo da curare le ferite della mente e dello spirito non basterà. È il nostro un ruolo importante soprattutto in un paese che considera gli artisti come dei giullari”.

_ Ad Asciano hai realizzato un Festival del suono e credo che sia la prima manifestazione del genere in Italia. Prendi in esame il suono in tutte le sue declinazioni ma noi siamo circondati da suoni standardizzati che non sappiamo decifrare. Tra l’altro, se vogliamo dirla tutta, anche una chitarra acustica amplificata in uno stadio non ha più un suono naturale.

 “Senza andare troppo indietro, diciamo da un secolo dall’arrivo della riproduzione sonora, il senso dell’udito è cambiato con una velocità esponenziale. Se prendiamo un’icona come Woodstock, quell’impianto suonava un quarto di quello di una discoteca di oggi. E pensa che cosa hanno sentito, o meglio non hanno sentito, le centinaia di migliaia di persone che stavano a due chilometri di distanza. Nel mondo della musica classica sino a cento anni fa si ascoltava – e adesso accade ancora nei teatri – in acustico ma la differenza sta nell’orecchio che prima era abituato ad ascoltare i timbri, gli strumenti e le sfumature. La nostra musica occidentale per tre secoli ha vissuto di sfumature che i musicisti creavano e che il pubblico sapeva riconoscere. Ora è cambiata la tipologia di ascolto. Si tratta di rieducare il pubblico all’ascolto”.

_ I grandi musicisti non sono semplicemente dei virtuosi del proprio strumento ma devono essere innovatori?

 “È vero ma personalmente non mi interessa che mi vengano a elogiare perché una musica è bella; mi interessa l’emozione, che la musichi ti tocchi dentro, che ti arrivi”.

_ E allora dimmi cosa è la cattiva musica: quella impura, di routine, disonesta perché fatta di formule a tavolino?

 “Potrei risponderti quella che ha suoni brutti, ignoranti, fatta da persone che potrebbero fare altre cose molto meglio. La differenza sta nelle persone che devono credere in quello che fanno, nelle loro intenzioni. Sono un anti-virtuoso per eccellenza, magari mi interessa fare con una nota quello che altri fanno con cento note”.

_ Uno dei parametri fondamentali della musica è il tempo. E le regole, penso alle scale, ci dicono che la musica è matematica.

 “Sino a un certo punto. O meglio è vero ma poi nella musica c’è qualcosa che non riusciamo a decifrare. Il ritmo lo inserisci nella giusta pratica, puoi anche fare un’equazione, ma ci sarà sempre un dieci per cento di indefinito che rende magico un brano. Se fosse matematica saremmo tutti geni”.

_ Il 21 luglio a Milano ci sarà una prima assoluta con Roberto Cotroneo, un intellettuale autore di tanti saggi e romanzi. Un nuovo esperimento?

 “E’ da tanti anni che volevamo fare qualcosa insieme. Cotroneo, oltre a essere giornalista e scrittore, è anche un pianista, un fotografo, e un grande appassionato di musica. Credo che viaggeremo tra i nostri amori musicali”.

_ Mi fa pensare che la tua curiosità non sia solo musicale e che anche questa sia un’occasione per superare ogni limite di stile.

 “Certo il confronto e gli scambi con altri generi di arti è fondamentale. Facciamo uno dei mestieri più straordinari del mondo ma se non si è curiosi non si va da nessuna parte”.

Cesare Picco ci saluta e sale sul palco. Che farà stasera? L’unica cosa certa è che sarà un’esperienza unica: «Sono un pianista seduto a ovest con le mani a est”, dice, “e guardo la stella polare annusando i profumi del Sud».

Pubblicato su Extra Music Magazine, 13 luglio 2021