di Alfredo Franchini
Sole, mare, vento, i campi di fave, gli ulivi secolari, le cicale. E a interrompere questo idillio bucolico le ciminiere dell’Ilva che ammorbano il quartiere Tamburi di Taranto. Sono i racconti musicali che i Salento All Stars ci propongono con l’ultimo album, “L’era del cigno bianco”, prodotto da Gate 19 con il sostegno di Puglia Sounds. Il titolo è un evidente richiamo al disco di Franco Battiato ma fu concepito da Davide Apollonio durante il lockdown, quindi prima della scomparsa dell’autore della Cura. “Quando le sirene delle autombulanze finiranno di suonare e per le strade ci si potrà riabbracciare”, canta Apollonio, fondatore del gruppo, “l’era del cigno bianco ritornerà”. L’immagine è messa in contrapposizione alla pandemia, rappresentata dalla nascita del cigno nero, un evento raro ma possibile.
In questo nuovo lavoro, la band made in Salento che parte dalla tradizione musicale per arrivare a costruire un suono proprio, si apre a diverse collaborazioni: Erica Mou, Michele Riondino & Revolving Bridge, O’ Zulu dei 99 Posse, Papa Ricky, Cristiana Verardo, Magnitudo 12. Lo zoccolo duro della band è formato da Apollonio con Alfredo Quaranta, Peppe Levanto, Ylenia Giaffreda, Marco Giaffreda e Manuel Fontana.
Diciamo sùbito che la Puglia non è la California ma ha una produttività musicale davvero importante e più avanti cercheremo di capire qual è il fattore che agevola tanti artisti dai Negramaro a Caparezza, da Carolina Bubbico a Diodato: sarà determinante solo lu sule, lu mare, lu jentu?
Il disco si apre con una voce amplificata dal megafono per denunciare “la politica di un governo che preferisce bruciare denaro pubblico negli altiforni di un’azienda a pezzi invece di investirli su un territorio dalle mille potenzialità”. Qui non si passa: l’invocazione dei salentini che cantano su un tappeto di chitarre e fisarmonica, invocando il ritorno a un mondo del lavoro fatto di diritti, primo tra tutti quello della salute. Una denuncia contro l’Ilva e le multinazionali che stanno inquinando un angolo di paradiso che poteva essere la California d’Italia. Ma la Puglia è anche il mare, diventato ormai un enorme cimitero, riassunto nell’album dal pezzo intitolato “Centosettanta”: è il racconto di un gommone colato a picco nell’arco di poche ore. Sono 170 i morti, 170 chiodi che trapassano la nostra coscienza. Sia lieve l’acqua, cantano i Salento All Stars. Ma è anche la denuncia di un Paese come il nostro dove crescono il rancore e il risentimento. Un paese diventato più piccolo, più vecchio, con un eccesso di concentrazione di poteri economici e politici. La denuncia di Davide Apollonio e Peppe Levanto che hanno curato la produzione artistica, si trasforma in una preghiera laica affinché il mare possa far ritrovare un po’ di umanità. Nelle dieci tracce dell’album cambiano le atmosfere musicali con vari stili dietro alle canzoni. Non ci sono formule precise, si va dalle melodie più romantiche che toccano direttamente chi ascolta anche in maniera un po’ alchemica, al rock e al pop. Si fondono linguaggi diversi ma resta un connubio tra melodia e armonia e i suoni caldi, come in “Navigare a vista”, cui prende parte Cristiana Verardo, vincitrice del premio Bianca D’Aponte destinata alle cantautrici, con il pianoforte Rhodes che si sposa allo sciabordio delle onde. Due canzoni dell’album, “Rolling” e “Nice day” stridono con gli altri otto brani perché sono stati composti per la colonna sonora del film “Cobra non è” di Mario Russo, il regista salentino che ha diretto anche i videoclip di Elodie, Rovazzi, J-Az e Fedez. Rolling, cantata da Alfredo Quaranta, racconta dell’incapacità di adattarsi alla vita quotidiana e Nice day si basa su un monologo di Cesare Maniglio, un’ode semiseria per chi spera in una vita diversa. I Salento All Stars prendono di petto anche il tema dell’emigrazione e dell’intolleranza di chi ha dimenticato che una volta “gli albanesi eravamo noi” e lo fanno assieme a O’Zulù dei 99 Posse, un nome storico della scena indipendente in Italia. Tutto con sonorità elettriche incastonate in una scrittura in dialetto salentino. Un incontro tra due mondi che raccontano le matrici artistiche dei Salento All Stars e di O’Zulu, rivisitando l’inciso di “Comu t’a cumbenatu”, un successo di Papa Ricki del 1992.
Dicevano del fattore Puglia che genera artisti e che è diventato un modello per tutti coloro che pensano che con la cultura si possa persino mangiare, come testimoniano i principali istituti di ricerca economici. Il segreto sta nell’organizzazione: si chiama Puglia Sound e non ha fatto altro che sfruttare al meglio i Fondi europei del Fers. Puglia Sound lavora su tre obiettivi: 1) Export della musica locale per far conoscere i propri artisti fuori dalla regione di origine; 2) Live con spettacoli sul territorio; 3) Record che, come si può immaginare, riguarda sia la produzione discografica sia la messa in rete degli artisti. In principio, ed è forse il fattore che ha dato origine a Puglia Sound, fu la Notte della Taranta, affidata alla direzione artistica di fior di musicisti e diventata popolare grazie anche all’orchestra che ha coltivato la tradizione della pizzica e della tarantella portandola in giro per il mondo. La band di Apollonio è in realtà un collettivo musicale: solo qualche anno fa per il CD Made in Salento, un disco di inediti e di rivisitazioni in chiave reggae e combat folk, furono chiamati quaranta musicisti. Con l’Era del cigno bianco il gruppo si dirige su un terreno nuovo, sonorità che si staccano dalla tradizione accoppiate a testi crudi, fatti persino di slogan sindacali. La copertina dell’album è indicativa: un uomo di spalle corre su una pista in cui compaiono il numero tre e il quattro. Come dire, parafrasando Massimo Troisi, non ricominciamo da zero ma da quattro punti fermi: i diritti delle persone, il mare che unisce e non divide i popoli, l’amore per la bellezza, il potere della parola in musica.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 26 maggio 2021
di Alfredo Franchini
Dal Planetario, così si chiama l’ultimo disco di Peppe Voltarelli, possiamo scorgere un pezzo della canzone d’autore internazionale. Canzoni indipendenti e libertarie cantate da quelle facce un po’ così… di chi va in giro per il mondo: Silvio Rodriguez, Luis Eduardo Aute, Joan Manuel Serrat, Joaquin Sabina e ancora Ferré, Bob Dylan, Endrigo, Modugno. È Voltarelli, il globetrotter della canzone, che ci conduce in un viaggio da Barcellona al Québec passando per i porti del Nord Europa. Una cartografia della canzone che lega l’Argentina con il suo tango, l’Europa francofona di Brel e Ferré, la Spagna con la trinità cantautorale Luis Eduardo Aute, Joan Manuel Serrat e Joaquin Sabina, la Russia di Vysotskij, l’Italia di Endrigo e Modugno. Il disco non cercatelo su Spotify perché Planetario, prodotto da “Cose di Amilcare” e pubblicato dalla raffinata editrice Squilibri nella solita veste di libro più CD, non sarà diffuso sulle piattaforme dominanti: editore, autore e produttore hanno ritenuto che almeno inizialmente l’opera deve vivere sul supporto fisico. E poi, diciamo la verità, le multinazionali quotate in Borsa trattano gli artisti in modo offensivo. Viva l’artigianato, dunque, se siamo di fronte a un lavoro diverso, da ascoltare tutto d’un fiato, un’Utopia lontano dallo stile supermarket. Planetario è una costola strappata al Club Tenco e non è un caso che a produrlo sia Sergio Secondiano Sacchi, nuovo direttore artistico della rassegna sanremese, con “Cose di Amilcare”, l’organizzazione che opera in Catalogna per diffondere la canzone italiana. Amilcare altri non è che Rambaldi, il quale nel 1972 fondò il Club Tenco dopo aver trascorso buona parte della sua vita a distribuire i fiori di Sanremo nel mondo. Coltivava la bellezza, Amilcare, e Peppe Voltarelli ha voluto restituirne una parte con canzoni senza tempo, adoperando la sua voce come collante dell’album e seguendo un filo rosso che unisce le sensibilità di autori differenti. Dev’essere chiaro che non è un disco di cover: Voltarelli fa sue le canzoni, peraltro in gran parte notissime, cambia il ritmo, imprime nuovi timbri e dà loro un suono inedito. Il disco ha una chiara matrice politica e infatti è dedicato, oltre che a Gianni Mura, a un gruppo di dissidenti turchi: come dire la canzone dà voce a chi voce non ne ha. Il digipack di Squilibri è corredato da un racconto dello stesso Voltarelli, dalla prefazione di Sergio Secondiano Sacchi e da un saggio di Laura Lombardi; all’interno i dipinti di Anna Corcione, trame di un tessuto che lega musica e pittura. Tele con colori autunnali o a tratti chiari, proprio come la musica di Voltarelli, giunto ora al quinto album da solista. In precedenza, aveva fondato il Parto delle Nuvole pesanti e aveva scritto la celebre Onda calabra, ripresa con sapiente ironia da Antonio Albanese per il film Qualunquemente. Planetario è stato concepito nell’ultimo anno tra la Catalogna e l’Italia e ha coinvolto quattordici studi di registrazione. Le canzoni camminano sulle strade del mondo e Voltarelli, forte dei suoi vagabondaggi, può dire: ho visto!
Nell’antologia on the road di Voltarelli troviamo in apertura il tema della libertà, rivissuta attraverso la giornata del 26 aprile 1945: Piccola serenata diurna, cantato con Silvio Rodriguez; la canzone fu composta da Rodriguez poco dopo la rivoluzione di Castro e Guevara. La liberazione è quella dalla dittatura cubana di Batista ma qui è dedicata alla Resistenza italiana. Ci spostiamo poi a Rotterdam (di Ferré) con le “puttane, i marinai nerboruti e i ragazzi di strada”. Un salto di due anni e siamo nel Millenovecentoquarantasette: la canzone omonima, con un colpo di genio, è ambientata nella Napoli del dopoguerra anziché a Madrid come nel testo originale di Joaquin Sabina. È una piccola Napoli milionaria in musica, un’allegoria che racchiude quell’epoca dove “nelle edicole il settimanale “Oggi” trasudava di Faruk, Elisabetta e di Chanel/ chi non sapeva leggere imparava su Sogno, Bolero e Grand’hotel”. Dicevamo che molti dei grandi della canzone internazionale hanno cantato in questo CD assieme a Voltarelli. Su tutti, Silvio Rodriguez, cubano, voce dell’America latina, premio Tenco 1985 e Manuel Serrat, pioniere della canzone catalana il quale ha visto la sua canzone Saeta tradotta in precedenza da Guccini e Gino Paoli e portata al successo da Mina con il titolo Bugiardo e incosciente. La versione della tigre di Cremona in realtà poco ha a che fare con l’originale di Antonio Machado e Serrat dove lo scrittore si interroga sul futuro dell’intera Spagna.
Torniamo a Planetario: Amancio Prada che nel 2010 ricevette il premio Tenco ci conduce con Voltarelli sul Sentiero dove tornano i braccianti con il sangue tribolato dal fardello delle stagioni. È la biografia di Miguel Hernàndez, pastore condannato a morte nel 1940 in quanto repubblicano. Poi Adriana Varela, maestra del tango canta nella Voce d’asfalto un testo di Cacho Castana. Un tango insolente sviluppato con piano fender, chitarre, percussioni, violino e contrabbasso. Joan Isaac intona Margalida dedicata alla donna di Puig Antich, un anarchico passato per la garrota del caudillo Franco nel 1974. Per la cronaca dopo l’esecuzione del giovane anarchico, nessuno seppe più niente di Margalida Bover Vadell, nemmeno Joan Isaac che scrisse la canzone. La fiaccola dell’anarchia in Spagna ritorna nella canzone di Luis Eduardo Aute, “All’alba”: si racconta dell’ultimo incontro tra un condannato a morte che sta per salire sul patibolo e sua moglie: “Se ti dicessi, mio amore/ che temo la mattinata… già sento che dopo la notte/ verrà la notte più lunga/ ti prego non mi lasciare all’alba”. La musica è sospesa sulle tastiere di Daniele Caldarini, il violino di Angapiemage Persico, il violoncello di Paola Colombo e il contrabbasso di Michele Staino mentre la voce strappata di Voltarelli suscita la nostra emozione. Nel porto di Amsterdam – canzone di Jacque Brel nella traduzione di Sergio Secondiano Sacchi – ritroviamo la vita dei marinai che fa storcere il naso ai censori della buona società tra pinte di birra, tovaglie unte e puzza di merluzzo. Ma è sul mare di Ostenda, (autori Leo Ferré e l’anarchico Jean-Roger Caussimon), che si possono ascoltare le onde e perdersi in un bar senza conoscere il senso della vita. È questo un passaggio del viaggio di Voltarelli che ci porta in Canada, nel Québec, con il brano A la manic. Da un posto sperduto del mondo si alza un canto, è una lettera d’amore scritta da un operaio impegnato nella costruzione di una diga: “Sapessi tu che noia qui a La Manic/ mi scriveresti un po’ di più a la Manicouagan”. La canzone è popolare tra i diciottomila lavoratori che dal 1959 al 1971 lavorarono nelle centrali elettriche del Québec. Di Bob Dylan, Voltarelli sceglie Winterlude: era un pezzo umoristico che il premio Nobel scrisse nel 1970, cinque anni prima che De Gregori, ispirandosi a quei versi, componesse Buonanotte fiorellino. Si tratta di un gioco di parole: winter (inverno) e interlude (interludio) ispirato al carnevale canadese.
Non sono certo canzonette fatte tanto per cantare ma brani con un notevole potere letterario e storico. Tra gli autori che si prendono idealmente per mano nel disco, due gli italiani: Sergio Endrigo, uno dei maggiori autori troppo spesso dimenticato, e Domenico Modugno. Dal dizionario endrighiano dei sentimenti e dell’impegno, Voltarelli sceglie “La prima compagnia”, suonando la chitarra classica cui si aggiunge quella acustica, l’ukulele di Caldarini, il sax di Maurizio del Monaco e uno strumento armeno, il duduk, suonato da Laura Pupo de Almeida. Amore e dolore sintetizzato dal sacrificio della prostituzione. Per Modugno, capostipite dei cantautori, la scelta va su Musetto: un brano che appare frivolo ma che in realtà, scritto nel 1955, invita la propria amata a pensare alle cose semplici. Gioca Modugno – nello stesso 45 giri c’era Io, mammeta e tu – eppure ironizza sia pure in modo lieve su certi stereotipi dei modelli femminili alimentati allora dai fotoromanzi. Del potente cantautore e scrittore russo Vladimir Vysotskij cui il club Tenco dedicò una serata nel 1993 da cui scaturì un CD di cover in italiano, viene tradotta Cavalli bradi con un arrangiamento raffinato in cui compare la tromba di Francesco Grigolo, il piano e le tastiere di Caldarini, il mandolino di Alex Aliprandi, il contrabbasso di Francesco Gaffuri e l’organetto di Alessandro D’Alessandro.
Voltarelli si prende anche una soddisfazione: fa tradurre in catalano una sua composizione, Marinai (premio Tenco 2010), e la canta assieme a Rusò Sala, chitarrista, vincitrice del premio Parodi nel 2013. Marinai diventa Els Mariners, scritta per il mare della Calabria che qui si fonde con le acque della Catalogna. Poco male: chi naviga incontra sempre gli stessi problemi. Il disco si chiude con “Sta città”, bonus track, in una versione strumentale che ci riporta alla tarantella e ai ritmi del Sud. Del resto, tutte le canzoni del CD parlano dei vari Sud del mondo. Dal planetario voltarelliano si scorge una luna sanguinante sulle bandiere degli anarchici che - come diceva Ferré - non son l'uno per cento ma credetemi esistono, in gran parte spagnoli chi sa mai perché. E nei versi di chi canta l’uomo e i suoi problemi eterni prevale un amore che deve fare i conti, oltre che con le garrote, con l’incapacità di dare agli altri senza pretendere nulla in cambio. Sono parole e note che arrivano all’anima per non dimenticare le tragedie umane e farci vedere cosa si vede dal planetario: quelle facce un po’ così’ di grandi autori magari poco conosciuti in Italia. Cose da ricordare, cose di Amilcare.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 15 maggio 2021
di Alfredo Franchini
La California prima l’ha sognata da un angolo di Napoli e poi l’ha vissuta suonando con i guitar heroes. Dal mandolino della nonna, dalla musica di Carosone e dal prog degli Osanna in cui suonava il fratello, alla vita in Inghilterra, poi a Los Angeles e ora a Berlino. Da quando lasciò l’Italia a diciotto anni, per Corrado Rustici la musica ha sempre una nuova frontiera da varcare. Chitarrista, compositore, produttore, un ponte ideale per unire culture musicali diverse che restano stampate nelle sue fotografie accanto ad Aretha Franklin, Miles Davis, Eric Clapton, Whitney Houston. Rustici ha pubblicato un nuovo disco, Interfulgent, e ne ha parlato in questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine.
_ Il tuo nuovo disco si intitola Interfulgent: una preposizione (inter) e un verbo latino (fulgeo) che si possono tradurre letteralmente “brilla in mezzo”. In un momento così buio perché hai scelto un titolo allusivo?
“Interfulgent è qualcosa che sta per venire, una speranza ma è anche un bel suono… È vero, stiamo vivendo un momento cupo che, in realtà, viene da lontano, da due decenni di decadenza. È un’onda che stiamo cavalcando dalla fine degli anni Settanta, tutto è diventato piatto, non abbiamo il tempo per approfondire niente e, quello che è peggio, il “sentito dire” viene scambiato per verità. Tanti, pur di apparire, rinunciano a essere quello che sono. Lo chiamerei post-moderno. Mi chiedi dove vedo la luce? Lo so bene che sono tempi difficili e i musicisti ne hanno risentito più di tutti ma la pandemia ci dà l’opportunità di riflettere su ciò che è importante. Anche per quanto riguarda l’arte”.
_ Sbaglio o il nuovo disco lo avevi iniziato a comporre prima che la pandemia si manifestasse?
“Sì, ho incominciato a scrivere mentre ero ancora in California prima di trasferirmi a Berlino. L’idea era quella di costruire un suono nuovo che ci conduca al trans moderno perché dopo la risacca ci dovrà essere per forza un’evoluzione, un’onda nuova. Ho fatto una ricerca sul suono, volevo ricollocare la chitarra in un contesto moderno perché purtroppo è uno strumento che sta diventando irrilevante nella musica contemporanea”.
_ Possiamo dire che la chitarra è sparita nella musica più diffusa dalle radio?
“Purtroppo, è diventata un po’ come il sassofono, legato a un genere vintage, malinconico e nostalgico. Sono un chitarrista e cerco strade nuove, così mi sono inventato dei suoni che si sono trasformati in un pedale che nascerà a settembre”.
_ Di che cosa si tratta?
“È un pedale che sarà costruito dalla Dv Mark, un’azienda italiana con cui lavoro, è frutto di una ricerca sul suono per dare valore all’espressività. Ora siamo di fronte a un piattume determinato dal copia e incolla degli ultimi dieci anni”.
_ In musica esiste il copia e incolla?
“Noi abbiamo tanti interpreti e pochi musicisti, ci sono troppi ragazzini al computer che copiano e incollano i suoni lavorando con un’aspirante “celebrità” che canta” …
_ Più che del Conservatorio mi sembra di parlare delle scuole elementari.
“Ecco perché dico che è il momento di fermarsi a riflettere. Non abbiamo bisogno di propagare l’industrializzazione delle note musicali. L’industria discografica non c’entra niente con l’arte: sono stati bravi a confondere le acque tra entertainment e la musica. Hanno frastornato i ragazzi mettendogli addosso la voglia di diventare popolari”.
_ Sì, ma allora come fai a essere ottimista se non ci sono più editori musicali?
“Perché l’arte non ha bisogno dell’industria. Dopo quarant’anni di lavoro posso dire di trovarmi in uno stato di grazia e non mi sento di appartenere a questo modus operandi della musica popolare. Cerco di fare arte, non frequento club, non voglio fare intrattenimento”.
_ Però hai avuto una lunga collaborazione con Zucchero che sfociò in alcuni lavori come “Oro incenso e birra” e “Spirito di vino” per non parlare del Miserere con Pavarotti.
“Di quello son molto contento: producendo Zucchero abbiamo davvero contribuito a cambiare il sound della musica popolare italiana”.
_ Abbiamo parlato del ruolo della chitarra ma nel tuo disco dai molto spazio alle tastiere.
“È vero perché non volevo fare un album da chitarrista. Uso lo strumento per esprimermi attraverso il pedale: la cosa più importante è la composizione, creare la musica che possa arrivare alla gente. Cerco sonorità diverse. Sono cresciuto musicalmente seguendo le orme di mio fratello Danilo che era leader degli Osanna: in quegli anni tu dovevi inventare cose nuove non dovevi copiare gli altri per avere una chance. Sono legato per sempre a quei valori”.
_ A proposito degli Osanna che era uno dei gruppi più importanti degli anni Settanta, devo dire che nel primo brano dell’album, Halo Drive, trovo qualcosa legato al Prog. Mi sbaglio?
“Ma torniamo al discorso delle sonorità: il prog per me era la scusa per trovare nuove combinazioni. Progressivo non è legato necessariamente agli anni Settanta ma a un genere di musica che vuole andare avanti. E mi sembrava giusto sfruttare le mie influenze che poi vanno dalla classica alla musica americana, al pop. Mi sono sforzato di trovare un modo originale per suonare la chitarra”.
_ Tu sei un compositore, un chitarrista ma anche un produttore. Che significa produrre un artista?
“Il mio modello è stato quello di George Martin che tutti definiscono il quinto elemento dei Beatles. Era l’uomo che contribuiva alla realizzazione, alla scrittura, a mettere a posto la dinamica dei brani. Se fai il produttore devi avere la consapevolezza musicale di quello che stai facendo: non vai da un meccanico se ti serve un dentista. Ci sono persone che si definiscono produttori solo perché sanno usare un programma ma magari sono dei fonici. È un mestiere che io concepisco come se fosse quello del regista e del direttore della fotografia i quali controllano il budget disponibile e danno certezze sul risultato del prodotto”.
_ Non sempre ci sono rapporti ottimali tra produttori e artista?
“Stavamo parlando di un prodotto che devi consegnare alla label in modo che poi questa etichetta possa promuoverlo al meglio. In parallelo, allo stesso tempo, si deve dare all’artista la gioia di sentirsi libero, esprimendosi al meglio”.
_ Ci sarebbe tanto da raccontare e dovremmo fare una lunga lista dei grandi con cui hai suonato, da Miles Davis a Eric Clapton. Potremmo parlare dei dischi italiani prodotti in America con Elisa e con Cristiano De André. Limitiamoci a Whitney Houston…
“Forse è la voce più bella con cui abbia mai lavorato. Eravamo in studio per registrare un album di Aretha Franklin e venne una giovanissima Whitney. Aveva una canzone, How will I know che, secondo il produttore Michael Walden, doveva essere completata nell’arrangiamento. Quel singolo fu un grande successo e dopo lavorammo con Whitney a un altro disco. Il fatto che tra tanti tu abbia scelto Whitney Houston è perché volevi sapere com’era?”
_ Ora fai tu le domande… hai detto che è stata una delle voci più belle ma non dici che grazie a lei sei stato citato pure in un romanzo, American Psycho di Bret Easton?
“È vero… mi cita quando il protagonista si entusiasma per Whitney Houston. Che ti devo dire, era bella, dolce ma con un grande grinta, molto sicura di sé, consapevole dei suoi mezzi”.
_ Una domanda banale ma è una curiosità per molti: è più difficile fare un assolo a velocità strepitosa tipo Joe Satriani, o un pezzo lento con le note scandite tutte uguali?
“L’unica cosa che conta è quello che vuoi dire con la chitarra, sono importanti le dinamiche all’interno della performance. È come la parola: se ho a disposizione un vocabolario più esteso potrò descrivere meglio quello che sento. Facciamo una prova, (e la fa davvero, Ndr): io ti dico una frase velocemente per farti capire le intenzioni oppure la stessa frase te la dico lentamente per farti pesare le mie parole”.
_ Quindi mi stai dicendo che si deve dire qualcosa di vero con la chitarra al di là del virtuosismo?
“Vedi, ci sono migliaia di chitarrai, scusa ma li chiamo così. Quelli fanno una sorta di selfie musicale che forse è utile per i teenager. In realtà anche noi quando avevamo quell’età passammo tanto tempo sul giradischi mandando avanti e indietro la puntina per imparare qualche passaggio musicale. Ma non è musica: è il dito che punta la luna e sbagli se guardi solo quello. Non esiste facile o difficile. Nel post-moderno c’è stata l’illusione che tutti potevano essere artisti: non è vero! L’arte è interpretata da pochi e di solito quei pochi vanno contro le cose che vuole la gente. Il modo musicale non è il chitarrismo, il manierismo, non conta la forma ma le intenzioni”.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 16 aprile 2021
di Alfredo Franchini
Noi mediterranei ci distinguiamo per il modo in cui ci rapportiamo al mare ma finché navighiamo ci dimentichiamo delle differenze che troviamo dentro ai porti. E se l’Atlantico o il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è quello della vicinanza. La storia di questo mare ce la racconta Stefano Saletti che con la Banda Ikona ha pubblicato in questi giorni “Mediterraneo ostinato”, frutto di decenni di ricerca nella quale unisce la letteratura con le memorie storiche e musicali, utilizzando la lingua Sabir, un idioma che marinai, pirati e commercianti parlavano da Genova a Tangeri. Siamo davvero distanti dalla musica in stile supermarket che domina le stazioni radiofoniche ma anche dai cliché tipici del Mediterraneo. Ne abbiamo parlato con Stefano Saletti in questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine.
_ È il quarto disco della Banda Ikona che è stato anche presentato nella trasmissione “I concerti del Quirinale” di Radio tre Rai. È un progetto che parte da lontano e che vuole rappresentare il Mediterraneo da Gibilterra al Bosforo rielaborando testi di poeti armeni o turchi con i suoni degli strumenti etnici. Come si fa a fare una fotografia del Mediterraneo visto che non esiste una sola cultura ma ce ne sono tante?
“E’ proprio questo il punto: a noi piace un Mediterraneo che sappia dialogare e che quindi sia unito sia pure con tutte le differenze. Solo qualche anno fa c’era il rischio di perdere l’identità di fronte all’Europa che ci metteva tra i paesi a rischio, gli spendaccioni. Noi facciamo rivivere la cultura millenaria perché senza Italia, Grecia o Spagna e, se mi consenti anche il Maghreb che pure non fa parte dell’Ue, ci sarebbe l’Europa del Nord, tutta un’altra entità. Musicalmente le melodie si rincorrono e ogni strumento è figlio di un altro che magari proveniva dalla Turchia ed è arrivato a Napoli e poi a Marsiglia”.
_ Però il Mediterraneo è devastato dalle guerre e il mare è diventato il più grande cimitero. L’Iliade è il primo testo giunto a noi per parlarci di un conflitto che ci trasciniamo sino a oggi. Era quello il primo scontro tra il mondo greco che rappresentava la libertà e il mondo asiatico caratterizzato dalle barbarie. Che il conflitto greco-persiano sia la genesi del male odierno?
“E’ la contrapposizione che ci portiamo dietro da sempre però mi piace pensare che la possiamo superare col dialogo, la musica e la cultura. Ci sono le differenze ma le possiamo superare con la conoscenza, non certo con il sovranismo. Se tu conosci l’altro puoi capirlo, condividere il suo percorso. Mi parli dell’Iliade ma anche allora viene raccontato uno scontro per la mancanza del dialogo; sarebbe bastato poco per risolvere quella guerra. Anche il trucco del cavallo di Troia, se vogliamo, è dovuto alla mancanza del confronto: c’era chi avvertiva che si trattasse di un inganno ma è mancato il dialogo”
_ Possiamo dire che la Turchia anche musicalmente è il ponte che salda Asia e Europa?
“Assolutamente sì. Il suono degli strumenti turchi è spesso nelle nostre musiche con riferimenti alla tradizione. Tra l’altro collabora con noi Yasemin Sannino, cantante italo turca, voce assieme a Barbara Eramo in Anima de moundo e ancora nel brano Nare Nare, di tradizione armena. Ed è significativo, dati i rapporti difficili tra Armenia e Turchia, che a cantarlo sia una cantante italo turca”.
_ I tuoi progetti sono realizzati con formazioni flessibili, si va dal duo con la voce di Barbara Eramo a una banda composita. C’è però un grande lavoro sulle voci.
“Il concetto è che siamo vicini e collegati con musicisti che sono tra i più prestigiosi della world music. La voce è importantissima, in alcune etnie il canto ha ancora la funzione di liberare la persona dai mali, superare la tristezza. Barbara Eramo ha una caratteristica che hanno poche cantanti al mondo: sa interpretare mantenendo una cifra stilistica pur cantando in tante lingue del mondo. Ma ho il privilegio di collaborare con tante voci importanti come Lucilla Galeazzi e Gabriella Aiello”,
_ Ecco, veniamo alla lingua, il Sabir, una lingua estinta. Si sa che i dialetti assurgono o decadono a dignità di lingua solo per motivi politici ma voi siete andati su una lingua non codificata”. “All’inizio del 2000, finita l’esperienza col precedente gruppo Novalia col quale avevamo usato una mescolanza di linguaggi diversi, mi sono letteralmente imbattuto in un dizionario del Sabir. Quando i marinai arrivavano in un porto se erano veneziani come potevano comunicare coi tunisini? Usavano parole delle diverse lingue. Quando i francesi nel 1830 conquistarono Algeri codificarono questa lingua definendola franca perché in realtà il Magreb si rifiutava di sottomettersi all’italiano, allo spagnolo o al francese. È un dizionario prezioso che mi permette di raccontare storie nuove partendo da uno spunto poetico. Nel disco precedente abbiamo realizzato un Padre nostro in Sabir, quello che cantavano i pescatori del Mediterraneo”.
_ È la lingua del mare che, tra l’altro, essendo ricca di parole tronche è più musicale e ti puoi mandare in eco da solo?
“Sì, ha una forza simile a quella dell’inglese che si è imposto nel rock anche grazie alle tronche. L’italiano ha una musicalità che si esprime nel bel canto, nella lirica perché permette di giocare con le vocali allungandole, il Sabir ti consente quello ma è efficace anche ritmicamente. Quando suoniamo in Spagna o in Francia ci dicono che non capiscono quello che cantiamo ma in compenso sentono una vocalità che appartiene loro”.
_ Questa storia del dizionario mi ricorda un po’ la genesi di Creuza de ma perché inizialmente Fabrizio De André aveva pensato di scrivere un vocabolario tutto suo.
“Creuza de ma è il mio punto di riferimento: io suono il bouzouki o l’oud perché uscì quel disco; sono convinto che De André e Pagani almeno musicalmente abbiamo fatto tornare l’Italia al centro del Mediterraneo. Sulla lingua posso dire che si sono avvicinati al Sabir partendo da un’idea di lingua del Mediterraneo”.
_ Però vorrei che facessi una riflessione sulla World music che è diventata famosa negli anni Ottanta ma ti chiedo: il jazz non è world music? Musicisti come Coltrane o addirittura Ravel non sono anche loro autori di World music?
“Certo è un’etichetta di cose che già esistevano. Il nome nasce grazie al Real world di Peter Gabriel e alla necessità di collocare nei negozi di dischi tutte le musiche di tradizione che andavano dal canto orale agli esprimenti di Brian Eno e David Byrne. Anche nella classica ci sta tutto, vai dalle musiche barocche a John Cage anche se poi le differenzi. Il concetto è che sono musiche del mondo che attingono spesso alla tradizione orale e cha hanno un passato antecedente alla nostra strutturazione che c’è stata da Bach in poi. Citi Ravel e Coltrane ma ci puoi mettere anche Miles Davis nel momento in cui non sono così tonali come nella musica dell’Ottocento ma recuperano la modalità” …
_ Scusa spiegaci questo passaggio tecnico.
“Modalità vuol dire lavorare sulle scale musicali e quindi muoversi su un bordone fisso e su quella tonalità costruisci di continuo una melodia che si ripete. Pensa al minimalismo americano quanto è figlio della musica Indiana”.
_ Poi all’inizio del secolo scorso prevalse la curiosità per altri suoni e altre musiche.
“Un po’ in tutta la cultura, ad esempio nella pittura lo spartiacque fu la Mostra universale dell’arte africana a Parigi che ispirò Picasso. Stessa cosa avvenne in musica, pensa all’ostinato continuo su cui si basa il Bolero di Ravel o i pezzi di Coltrane, arricchiti armonicamente mantenendo il bordone che è quello che poi caratterizza le musiche del mondo dall’India al Medio Oriente”.
_ Il nostro Sud poi merita un discorso a parte?
“Certo lì trovi lo stordimento, la trance, attraverso il ritmo con la tonalità che è sempre quella di sei ottavi della tarantella che poi ha ispirato tanta musica classica da Tchaikovsky a Mozart. C’è sempre stata la contaminazione tra popolare e classico”.
_ A un certo punto però si crearono la serie A per la musica colta e la B per l’altra.
“Fortunatamente ora si sta recuperando anche perché l’imborghesimento degli inizi del Novecento ha allontano le classi popolari dalla classica. Accadeva che gli spettatori litigassero in teatro per un’opera di Stravinsky come poi sarebbe accaduto per i Beatles o i Rolling stones. La musica classica non era quella che è diventata dopo, tutti fermi e ingessati”.
_ Nei tuoi progetti citi scrittori come Calvino e Pasolini. Nell’ultimo disco poi recuperi S’i fosse foco di Cecco Angiolieri, il primo “young angry man” della letteratura europea.
“Già in un altro progetto con Nando Citarella avevamo recuperato un brano di Cecco, La mia malinconia, frutto di uno spettacolo teatrale. Quando ho composto la musica ho pensato che la voce forte, ruvida e carnosa di Lucilla Galeazzi fosse perfetta”.
_ Posso chiederti come componi la musica?
“Dipende, alcuni brani nascono al piano o alla chitarra classica ma una cosa che mi capita spesso è di comporre un riff e registrarlo. Lo metto in un cassetto e magari dopo tre anni lo tiro fuori”.
_ Era un metodo consigliato a tutti gli scrittori di una volta ma volevo chiederti che cosa ha significato suonare al Quirinale?
“Un’emozione grande, avverti il peso della storia e pensare di portare il Sabir in quel palazzo, dando un senso di appartenenza e di unione al Mediterraneo, credo che sia stato importante”.
_ È stato importante anche per raggiungere un pubblico molto più ampio?
“Sì, grazie a Rai 3 che ci ha chiamati. Devo dire che la musica popolare sta pagando un prezzo altissimo perché i media si occupano poco di musica eppure è il nostro patrimonio. Ascolto di tutto e mi piace tutto ma vorrei che accanto al dibattito sull’ipotesi che i Maneskin siano i nuovi Led Zeppelin ci si potesse chiedere se Lucilla Galeazzi non sia l’Amalia Rodriguez italiana”.
_ Pino Daniele ha scritto: “Chi tene ‘o mare non tene niente” … Come la mettiamo?
È vero è il Potere che trasforma le cose, non la musica, e il Mediterraneo non è messo bene ma io voglio ricordare proprio questo: abbiamo il mare e non è poco. Ripartiamo da lì”.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 2 aprile 2021
di Alfredo Franchini
Galeotto fu un mandoloncello un po’ impolverato che Eugenio Bennato vide nelle vetrine di Via San Sebastiano, conosciuta a Napoli negli anni Sessanta come la strada della musica per i tanti negozi di strumenti. Accadeva mentre l’Italia stava cambiando col beat, i primi jeans, i capelli lunghi, e i giovani sognavano con i libri di Kerouac un mondo diverso. Per Eugenio Bennato, cantautore, studioso e divulgatore di musica popolare, compositore per il teatro e per il cinema, una laurea in Fisica a dimostrare che dividere le materie umanistiche da quelle scientifiche è un atto arbitrario, comprare l’austero mandoloncello fu una scelta controcorrente: il periodo era a dir poco elettrico e la colonna sonora della società stava transitando dal beat ingenuo al rock dell’impegno. Con la pandemia in corso è arrivato l’ultimo lavoro di Eugenio Bennato, un concept album, “Qualcuno sulla terra”, (edito da Sponda Sud), un viaggio musicale ispirato alla creazione del mondo, canzoni in perenne equilibrio tra ritmiche complesse, melodie aperte e un “muro di voci”: troviamo, infatti, contralto, soprano, tenore, basso, mezzo soprano e baritono. Il disco si chiude con una suite, “A sud di Mozart”, composto da corale, opera buffa e tarantella. In realtà si tratta dell’ultimo lavoro in proprio perché, per testimoniare questo tempo buio in cui è preclusa la musica dal vivo, assieme al fratello Edoardo che a suo tempo fece esplodere dal Vesuvio il rock unito all’ironia, ha inciso un singolo, “La realtà non può essere questa”. Eugenio Bennato si racconta in un’intervista esclusiva per Extra Music Magazine.
_ Son passati molti anni da quando fondasti la Nuova Compagnia di canto popolare insieme a Roberto De Simone e a Beppe Barra e poi sarebbero venute le altre formazioni di Musicanova e di Taranta power. Ora pubblichi un disco, “Qualcuno sulla terra” che mescola vari generi. Insomma, fai sempre scelte musicali contro corrente rispetto alla musica dominante?
“Forse è il momento giusto per fare un primo bilancio. Se riprendo in mano il libro che scrissi con Carlo D’Angiò, lo sbiadimento dei ricordi mi permette di rileggere quelle pagine nella maniera più obiettiva, direi senza essere coinvolto. E allora ripenso a quel ragazzo che nel 1968 fondava la Nuova compagnia di canto popolare. Fu quello un gesto rivoluzionario e di controtendenza”.
_ Fu un gesto rivoluzionario perché la musica popolare si contrappone alla cultura dominante? In quegli anni si verificò una sorta di cospirazione sonora che segnò chi aveva quindici anni con la promessa di una vita nuova e chi ne aveva venti con la prospettiva di cambiare il mondo.
“E allora mi chiedo perché nel 1968 mi è venuto in mente di prendere quel mandoloncello, ricordo che lo pagai 63 mila lire. L’avevo visto in una vetrina nella strada dove si susseguivano i negozi con tante chitarre elettriche scintillanti. Voglio dire che pure a me piacevano Bob Dylan e i Beatles”.
_ E allora qual è il motivo che ti portò a scartare la chitarra elettrica?
“La verità è che già allora noi facevamo quello che devono fare tutti i giovani: andare sulle cose nuove, su percorsi mai battuti. Questa è la forza dell’umanità che si rinnova perché ripetersi vorrebbe dire consumarsi. Noi fondammo la Nuova compagnia di canto popolare rinunciando a risultati immediati che poi potevano essere banalmente anche la conquista delle ragazze che invece erano attratte dai rocchettari dell’epoca”.
_ Ma le cose che dovevano essere nuove in realtà affondavano nella tradizione e in più vi allontanavate dal mondo beat che vi piaceva…
“Sì, ma è importante fare una scelta alternativa proprio quando conosci la realtà che ti circonda. A quel punto sei consapevole di non fare un passo indietro. Noi, al contrario, volevamo andare avanti e lo abbiamo fatto perché se ci pensi non c’era in musica una frattura tra presente e passato”.
_ Tu sostieni che la tammurriata sia il rap di oggi?
“Certo quel parlato ritmico sull’accompagnamento di un tamburo è un antesignano del rap. Quando successivamente presi l’iniziativa di fondare Taranta power misi ancora meglio a fuoco il senso delle parole declamate per dare un ritmo: era davvero l’anticipo di quello che sarebbe stato il rap ma attenzione questo riferimento al testo in senso ritmico come se fosse una filastrocca appartiene al mondo popolare”.
_ Diverso è il caso della taranta, un linguaggio di commistione che, tra l’altro, affonda nell’antropologia per il significato di purificazione e di liberazione che assume in certe zone del Mezzogiorno?
“La taranta si diffuse in tutto il Sud anche con una valenza liberatoria e soprattutto con lo stesso senso ternario. Mi viene in mente un pensiero che formulai quando mi trovavo a New York e mi chiesi: che farebbe l’America se avesse la tarantella? Ovviamente la prima risposta è che l’avrebbe diffusa in tutto il mondo. Poi però pensai che gli americani le avrebbero cambiato il nome”.
_ E perché mai si dovrebbe cambiare il nome alla tarantella?
“Perché in quel modo viene abbinata alla tarantella di maniera, a quella napoletana che, in realtà, non esiste ed è quindi associata a un’immagine fuorviante. Pensai alla tarantella pugliese che però doveva essere contrassegnata da un termine più deciso. Riflettendo sull’energia che sprigiona quel ritmo, fondai Taranta power, a indicare un movimento tradizionale vissuto però in una chiave contemporanea. Alla fine, lo abbiamo imposto come slogan e il risultato è che questo ha contribuito a diffonderlo nelle nuove generazioni”.
_ Nel 1984, con Creuza de ma, Fabrizio De André ha aperto la strada alla musica etnica. In che modo ti ha influenzato?
“Vedi, ho parlato della mia passione per Dylan e i Beatles ma Fabrizio De André era un punto di riferimento molto prima che scrivesse Creuza de ma. Quelle sue canzoni, voce e chitarra, quando cantava: “Via del campo c’è una bambina” … con quel modo di porgere la voce erano distante dalla musica di mercato. Ci ispiravamo a lui lo percepivamo come antisistema, aveva una leggerezza tipica del mondo popolare. Io poi qualche anno fa gli ho dedicato una canzone che si chiama Balla la nuova Italia”.
_ Ti ricordi il verso dedicato a De André?
“Sì, faceva così: degli esclusi dal concorso dell'ignoranza nazionale che si ostinano a cantare le canzoni dissonanti della scuola di Fabrizio, della scuola dei Briganti. E balla balla la nuova Italia in direzione ostinata e contraria, balla a ritmo popolare di chi non ci vuole stare”.
_ A sua volta Fabrizio amava molto Napoli e la canzone napoletana. Ma come sta cambiando la musica a Napoli?
“Napoli non finirà mai di sorprenderci. Non si ferma, non si crogiola sulle sue glorie e sulle canzoni che l’hanno resa famosa nel mondo da O sole mio a Torna a Surriento. L’esempio chiaro e sorprendente lo abbiamo avuto con Pino Daniele che, pur rimanendo profondamente napoletano, si era inventato un linguaggio nuovo. Pino nasce a Napoli ma va oltre, supera tutta l’olografia che fa pensare alle tipiche celebrazioni. Io mi guardo bene dal dire che nei tempi passati era un’altra cosa o che si stava meglio; vivo il tempo senza nostalgia e dico che da Napoli anche adesso c’è da aspettarsi qualcosa di nuovo, nella musica, nel teatro e nella letteratura”.
_ Però la situazione generale della musica è cambiata e non in meglio. Tu esci con un concept album ma è merce rara vista la crisi generale dell’industria discografica.
“C’è uno strapotere irritante dell’oligarchia televisiva e delle radio commerciali. Una volta il mezzo di diffusione principale era il disco, oggi a farla da padrone sono i circuiti digitali spesso superficiali ed effimeri. Però il cambiamento delle tecnologie fa parte della storia”.
_ Resta la musica dal vivo a cui si dovrà tornare al più presto. Tra l’altro il tuo ultimo disco, Qualcuno sulla terra, era inizialmente un progetto teatrale.
“Sì, è nato come opera teatrale per il San Carlo, poi nella recente pubblicazione ho voluto riattualizzarlo. Racconta la creazione, il cammino dell’uomo in rapporto al suo ambiente, la forza della ragione”. L’ho realizzato con un sestetto vocale che ho fondato e che si chiama Le Voci del sud. (Il gruppo è formato da Laura Cuomo, Letizia D’Angelo, Francesco Luongo, Edo Cartolano, Daniela Dentato e Angelo Plaitano; nell’ultimo corale si aggiunge la voce unica di Pietra Montecorvino).
_ Sette canzoni per descrivere la genesi partendo dall’assunto che è l’amore che muove la luna. Ma tra i brani c’è anche Ballata di una madre: è una sorta di inno alla vita?
“Parlo dell’amore del primo istante che genera luce e bellezza, cioè un valore assoluto che va al di là della ragione. La ballata di una madre ha una traccia precisa: le vite sono tutte da rispettare, quelle passate e quelle future.
_ Negli arrangiamenti della musica che sentiamo passare alla radio sta scomparendo anche la chitarra perché molti ragazzi si autoproducono il disco con un computer. Nella musica commerciale vediamo sparire uno dopo l’altro tutti gli strumenti, tu che sei un esperto di strumenti come la chitarra battente ne sarai indignato?
“Ma no, nei miei concerti, prima del Covid, ero molto contento di avere un pubblico di giovani; la chitarra battente e quella classica sono scelti dalle nuove generazioni. Pensa che quando comprai la prima chitarra battente dovetti recarmi a Bisignano in provincia di Cosenza da un bravissimo liutaio, De Bonis, che costruiva uno di quegli strumenti ogni tre anni. Adesso puoi trovare la chitarra battente nei negozi specializzati perché ci sono centinaia di ragazzi che vogliono studiarlo. Da un lato c’è la globalizzazione ma dall’altro ci sono bambini che ai miei concerti si portano appresso la tammorra e la suonano”.
_ Che ricordo hai di Carlo D’Angiò?
“Era un grande artista col quale ho condiviso momenti straordinari. Scrivevamo insieme delle cose con un affiatamento irripetibile, come se fossimo stati un’unica entità. Così abbiamo scritto Brigante se more e anche A sud di Mozart”.
_ È la suite che chiude Qualcuno sulla terra: sono tre movimenti, corale, opera buffa e una tarantella davvero imponente dedicata niente meno che a Mozart. Siamo alla fine de Settecento e a Napoli arriva il più grande compositore del tempo… A sud di Mozart.
“Fu scritta al pianoforte e faceva parte di un lavoro per il teatro di Reggio Emilia che mi aveva chiesto un racconto sulla visita di Mozart a Napoli. All’epoca l’aristocrazia aveva rifiutato il compositore e noi abbiamo immaginato che il popolo al contrario di quanto accadeva a Corte, gli aprisse le braccia e lo portasse a visitare i quartieri spagnoli dove era in corso un’opera buffa”.
_ Benvenuto a Napoli, Mozart. La gente gli dice che gli vuole bene perché “è scombinato” è uno di loro e gli racconta la storia di un uomo, Carminiello, il quale è malato e non vuole più uscire da casa. Sarà una donna a ipotizzare che Carminiello non è malato ma è solo innamorato per cui una medicina deve esistere. Qual è?
“Per guarire Carminiello c’è bisogno di musica. O meglio di una tarantella che parte lenta e poi sale sino a rubargli l’anima”. È il potere della musica.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 3 marzo 2021